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TIPI DI PRONUNZIE: LE DECISIONI PROCESSUALI E DI MERITO DAVANTI ALLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA: YULHMA V. BALDERAS ORTIZ.

TIPI DI PRONUNZIE: LE DECISIONI PROCESSUALI E DI MERITO DAVANTI ALLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

di Avv. Yulhma V. Balderas Ortiz
Dottore di ricerca in Diritto pubblico, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Per quanto riguarda, le pronunzie adottate dalla Corte costituzionale che definiscono il giudizio, vanno distinte le decisioni meramente processuali da quelle di merito. Con le prime, la Consulta non procede alla verifica della fondatezza o infondatezza della questione di incostituzionalità di una legge, ma si limita a rilevare come motivi di ordine procedurale impediscono alla stessa di esaminare il merito della eccezione, il quale a seguito di tali pronunzie rimane assolutamente impregiudicato[1].

A seconda del dispositivo le decisioni della Corte  si possono dividere in: 1) sentenze che dichiarano la illegittimità costituzionale della norma (sentenze di accoglimento); 2) decisioni che dichiarano la non fondatezza o di manifesta infondatezza della questione[2]; 3) ordinanze che dichiarano l’inammissibilità o la manifesta inammissibilità della questione[3]; 4) ordinanze di restituzione degli atti al giudice a quo[4].

Le prime due danno luogo a decisioni di merito, in quanto accertano l’esistenza o meno dell’antinomia prospettata nell’ordinanza di rimessione, e, a seconda dell’esito negativo o positivo di tale giudizio, accolgono la questione dichiarando l’incostituzionalità della norma, ovvero la respingono, dichiarando la questione non fondata o manifestamente infondata.

Le altre due, danno luogo a decisioni processuali, in quanto prescindono dall’esame della ipotizzata antinomia. Tali pronunzie possono o accertare la mancanza ab origine di uno dei presupposti per la valida introduzione del giudizio incidentale, nel qual caso il dispositivo è di inammissibilità o di manifesta inammissibilità, o chiedere al giudice di riesaminarli alla stregua di fatti sopravvenuti, nel qual caso il dispositivo è di restituzione degli atti[5].

Così le decisioni sostanziali o di merito, con cui si conclude il giudizio sono di due tipi, vale a dire di accoglimento (fonti del diritto ed effetti normativi nell’ordinamento giuridico complessivo[6]), e di rigetto della questione (diritto nello Stato ed effetti nel giudizio a quo[7]).

In quelle di accoglimento, la Consulta dichiara fondata la questione accertando l’esistenza del contrasto fra la norma legislativa censurata ed il parametro costituzionale di cui si assume la lesione, quindi dichiara la illegittimità della norma legislativa oggetto del giudizio. Invece, in quelle di rigetto dichiara la non fondatezza o la manifesta infondatezza della questione, ma si limita ad escludere che la disposizione impugnata sia illegittima solo ed esclusivamente sotto il particolare profilo esaminato nel giudizio.

Per quanto riguarda la loro efficacia, l’articolo 136 della Costituzione[8] dispone che le sentenze che dichiarano la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale, cessano di avere efficacia e non possono avere applicazione[9].

Sulla base di tale disposizione è possibile determinare l’efficacia nello spazio di tali atti, ovvero che la dichiarazione di incostituzionalità ha valore erga omnes. Rispetto alla loro efficacia temporale, la questione è più complessa[10], infatti l’articolo sopracitato, riferendosi ad una cessazione di efficacia della norma annullata dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza di accoglimento, non risolve il problema se tale fenomeno si propaghi solo pro futuro o decorra dal momento in cui è sorta l’antinomia[11].

Tuttavia l’articolo 136, va letto insieme a quanto è previsto dall’articolo 1 della Legge costituzionale 1/1948, la quale consente di sollevare la questione di legittimità nel corso di un giudizio; quindi la cessazione di efficacia della norma non può non essere fatta valere nell’ambito del processo a quo sospeso proprio in attesa del giudizio della Consulta. Dunque la cessazione di efficacia retroagisce in modo da spiegare la sua conseguenza nel processo sospeso che sarà riattivato proprio per valutare l’incidenza della pronuncia della Corte, e ove questa abbia convalidato il dubbio sollevato dal giudice a quo, la norma inficiata da incostituzionalità non potrà più essere utilizzata.  La cessazione di efficacia opera in tal senso ex tunc (per il passato) e non ex nunc (per l’avvenire[12]).

 

In sintesi, queste producono effetti retroattivi incidendo anche sulle situazioni e sui rapporti sorti anteriormente, purché ancora pendenti (articolo 30[13], comma 3, della Legge n. 87/1953[14]), vale a dire suscettibili di formare oggetto di un giudizio. Al riguardo, la Consulta è intervenuta in alcune ipotesi per evitare le conseguenze negative, rispetto il sistema normativo, che deriverebbero dalla retroattività delle sentenze di accoglimento. Tale problema si pone in particolar modo nell’ipotesi in cui l’annullamento produrrebbe nell’ordinamento un effetto ugualmente o maggiormente incostituzionale, ovvero il c.d. horror vacui[15].

Inoltre, la sentenza di accoglimento non ha carattere dichiarativo, bensì costitutivo, quindi determina l’annullamento della norma incostituzionale, ripristinando così la situazione giuridica precedente all’emissione dell’atto. Circostanza che è stata duramente criticata[16], perché l’incostituzionalità della legge sarebbe più correttamente da ascrivere alla categoria della nullità, che la Consulta si circoscriverebbe a dichiarare[17].

Ed ancora, la perdita di efficacia significa che la norma non può essere più applicata da qualsiasi giudice ma anche da qualsiasi soggetto pubblico o privato. Quindi la sentenza di accoglimento vale nei confronti di tutti erga omnes.

La efficacia retroattiva della sentenza e, la disapplicazione generalizzata della norma accertata e dichiarata incostituzionale, va a beneficio di tutte quelle situazioni pregresse che siano ancora aperte o pendenti, mentre non può influire sulle situazioni chiuse in quanto regolate da sentenze ormai definitive (passate in giudicato), in quanto non più impugnabili da atti amministrativi definitivi, ed anche nei casi in cui una certa facoltà sia pregiudicata dalla decorrenza del termine di prescrizione o dal verificarsi di decadenze. Al riguardo, l’articolo 30[18]della Legge n. 87/1953 prevede una eccezione in base al principio costituzionale di favore per la libertà personale del condannato: se la norma accertata come incostituzionale era stata alla base di una sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Ovvero, il decorso del tempo, che di regola consolida definitivamente i rapporti giuridici o le situazioni giuridicamente regolate, in questo caso non opera, e il condannato beneficia del giudizio di accertata incostituzionalità della norma su cui si era fondata la sua condanna[19].

Dall’accoglimento di una questione di costituzionalità può conseguire la illegittimità derivata di altre norme, ovvero la c.d. illegittimità consequenziale. Generalmente, il nesso di consequenzialità si riferisce a norme di natura confermativa, ripetitiva, attuativa di quelle dichiarate incostituzionali.

Di conseguenza a seguito della sentenza, potranno tornare in vigore norme che erano state abrogate dalla norma che viene dichiarata incostituzionale (la c.d. riviviscenza di norme abrogate)[20].

D’altro canto, per quanto riguarda le sentenze di rigetto, in esse la Consulta non riconosce fondata la questione sollevata, quindi la sentenza è la conseguenza del vaglio dei vizi così come presentati nella ordinanza di rimessione (giudizio incidentale), o nel ricorso (giudizio principale).

In caso di rigetto, rispetto della stessa norma potrebbero successivamente essere addotati vizi diversi in un giudizio fra parti diverse. Le stesse parti potrebbero proporre vizi diversi in una diversa fase del giudizio[21]. Al riguardo la Corte ha ritenuto che lo stesso giudice possa riproporre la questione di illegittimità di una norma sotto profili diversi e con diversi argomenti.

Nell’ipotesi di un giudizio promosso in via incidentale, la efficacia della sentenza di rigetto opera esclusivamente nei confronti del processo a qua che era stato sospeso. In questo caso infatti, il giudice dovrà applicare la norma che è passata favorevolmente al vaglio della Corte. La sentenza di rigetto dunque, non equivale in alcun modo ad un accertamento in via definitiva della legittimità costituzionale della norma, sottoposta al vaglio della Corte medesima[22].

Diversamente, nell’ipotesi di ricorso diretto in via principale, prima delle riforme del 2001, l’accertamento della infondatezza della questione comportava la rimozione dell’ostacolo alla promulgazione e pubblicazione della legge regionale impugnata dallo Stato, invece, per il ricorso promosso avverso norme di leggi statali, la sentenza comportava la conferma della legittimità e quindi, della piena operatività delle norme di un atto legislativo già pubblicato ed operante.

Attualmente, è stato generalizzato il regime giuridico che era proprio della impugnazione della legge statale da parte della Regione, ovvero alla stregua del nuovo testo dell’articolo 127, la sentenza di rigetto lascia in vigore e in piena operatività la legge impugnata, sia essa statale o regionale.

Su questo ultimo aspetto, è da ricordare che anche la sentenza di rigetto resa a conclusione di un giudizio in via principale non equivale, di per sé, all’accertamento della legittimità costituzionale della legge impugnata, la quale potrebbe essere sottoposta al vaglio della Corte in via incidentale. Invero, il potere di impugnazione in via diretta, sia dello Stato, sia della Regione, può essere esercitato una volta soltanto per ciascuna legge: si tratta in questo caso, della c.d. consumazione del potere, determinata dalla revisione di un termine di decadenza per l’esercizio del potere medesimo[23].

NOTE:

[1]E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit., p. 125.

[2]Su questo aspetto, (…) L’ordinanza di manifesta infondatezza, con la quale la Corte definisce una questione già decisa nel senso della infondatezza e sempre che non emergano nuovi motivi o nuove ragioni. Con essa, infatti si riscontra la mancanza di uno dei presupposti processuali dell’ordinanza di rimessione: la “non manifesta infondatezza” della questione. Talvolta, infatti, la Corte ha adottato, in siffatte circostanze, una decisione di inammissibilità (cfr., ad esempio, sent. n. 360/1989). Ciò vale, a fortiori, allorché si tratti di una questione già decisa dalla corte nel senso della fondatezza. In tali ipotesi, infatti, considerata la retroattività delle sentenze di accoglimento,manca, per definizione, la rilevanza della questione sollevata sulla norma dichiarata incostituzionale”. F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 521.

[3]Su questo aspetto, (…) La decisione consiste in una sentenza di inammissibilità o in un’ordinanza della Corte, la quale si avvale della seconda, per lo più, quando si limita a ribadire un orientamento consolidato. Con esse si rileva nell’ordinanza di rimessione un vizio, di regola insanabile da parte del giudice a quo: ad esempio, la natura non legislativa della norma impugnata, il rango non costituzionale del parametro leso, la mancanza del giudizio o la natura non giurisdizionale dell’autorità rimettente nei giudizi in via incidentale, la carenza di legittimazione o dell’interesse nei giudizi in via principale, il contrasto tra motivazione dell’ordinanza del giudice a quo e il dispositivo (…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA, (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 521.

[4]Al riguardo, (…) Quando invece, il vizio è sanabile o l’ostacolo è superabile, la Corte utilizza nei giudizi in via incidentale l’ordinanza di restituzione degli atti al giudice a quo. Ciò accede, sempre a titolo esemplificato, nel caso di ius superveniens o nei casi  in cui la questione è sollevata in modo generico, ancipite o ipotetico (cfr., ad esempio, sent. N. 473/1989) ed ancora allorché l’ordinanza sia carente di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza. In tali circostanze, il processo costituzionale può continuare, ma il giudice rimettente deve reintrodurlo, sanando il vizio o eliminando il fattore impeditivo. Nella giurisprudenza, la dicotomia “inammissibilità/restituzione degli atti” non trova sempre riscontro nei termini descritti. Non mancano, infatti, casi nei quali la Corte si avvalga della “inammissibilità” in luogo della “restituzione degli atti” ovvero, addirittura, proceda alla restituzione degli atti con sentenza, ossia in via definitiva (sent. n. 190/1984). (…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 521.

[5]Cfr. S. M. CICCONETTI,  Lezioni di giustizia costituzionale, cit., pp. 74 ss.

[6]Sul particolare, (…) Tale conclusione si trae da una molteplicità di fattori e, primariamente, dal fatto che le pronunzie di questo tipo incidono sull’efficacia delle fonti legali (e per giunta, di rango primario), sono espresse in termini generali ed astratti e sono pubblicate, ai sensi dell’articolo 136 Costituzionale, sulla Gazzetta Ufficiale. Esse producono, così, “diritto dello stato” e, pertanto, “fanno sistema” con le altre norme dell’ordinamento, costituiscono parametro per la “violazione di legge” e per determinare i vizi di legittimità ai fini del ricorso in Cassazione, sono presuntivamente conosciute dai giudici e non devono essere allegate in giudizio e sono rilevanti per determinare l’antigiuridicità dell’illecito.(…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 522.

[7]E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit., pp. 131 ss.

[8]V. M.  SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., p. 14.

[9]Cfr. S. M. CICCONETTI,  Lezioni di giustizia costituzionale, cit., p. 76.

[10]Al riguardo, (…)La menzionata formula, anzitutto, non esclude, ma anzi sembra presupporre l’efficacia della norma prima della dichiarazione di incostituzionalità e non chiarisce, dunque, quali effetti vengano travolti dalla sentenza di accoglimento. Maggiori lumi si traggono dall’articolo 1 della l. cost. n. 1/1948, il quale stabilendo tra le modalità di acceso alla Corte costituzionale la via incidentale, implica logicamente una qualche retroattività delle sentenze di accoglimento. Appare connaturata, infatti, alla natura incidentale del giudizio, l’esistenza di un necessario  nesso di pregiudizialità tra giudizio comune e giudizio costituzionale. L’eventuale accoglimento della questione deve, infatti, rilevare ai fini della definizione della controversia concreta, sicché, dal punto di vista costituzionale, la decisione della Corte, quantomeno rispetto al giudizio  a quo, ha carattere retroattivo. (…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 523.

[11]E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit., pp. 140 ss.

[12]Ibidem.

[13]Su questo aspetto, (…) In base a tale disposizione, la sentenza di accoglimento ha, dunque, efficacia retroattiva, incidendo – con reviviscenza della disciplina illegittimamente abrogata quando abbia ad oggetto la norma abrogatrice (sent. n. 13/1974) – su tutte le fattispecie nelle quali la norma la norma viziata può ancora trovare applicazione, ossia nei rapporti giuridici pendenti. Ed al legislatore non è consentito nemmeno limitare la portata delle pronunce di incostituzionalità introducendo, rispetto alle situazioni pendenti, nuovi oneri che abbiano per effetto quello di lasciare il rapporto oggetto del giudizio principale sotto la disciplina della norma dichiarata incostituzionale (sent. n. 139/1984). Viceversa, la sentenza di accoglimento non modifica la disciplina dei rapporti giuridici esauriti e, cioè, di quei rapporti nei quali la norma incostituzionale ha trovato già osservanza o applicazione in via definitiva: è il caso delle sentenze passate in giudicato, della prescrizione, della decadenza e delle transazione (sempre, ovviamente, che l’annullamento non riguardi proprio le norme che disciplinano tali istituti).Vi è però, un’eccezione all’eccezione, ossia un’ipotesi nella quale la retroattività è assoluta e travolge anche i rapporti esauriti. Si tratta del caso dell’annullamento di leggi penali incriminatrici. In tale circostanza la sentenza di accoglimento della Corte travolge anche l’esecuzione e gli effetti penali di una sentenza irrevocabile di condanna, i quali cessano comunque senza incontrare il limite del giudicato (articolo 30, comma 4, l. n. 87/1953). Un secondo limite alla retroattività delle sentenze di accoglimento è ravvisabile nelle ipotesi in cui l’oggetto consista in una norma penale di favore, con conseguente reviviscenza di una disciplina meno favorevole al reo. In una siffatta eventualità, la decisione della corte non si applica nemmeno ai rapporti pendenti, sacrificandosi altrimenti il principio di rango costituzionale per il quale nullum crimen sine praevia lege poenali (articolo 25, comma 2, Cost. Un altro caso di irretroattività delle sentenze si riscontra in relazione agli atti processuali. Per essi opera, infatti, il principio tempus regit actum, in base al quale il regime di un atto rimane quello della normativa vigente (anche se incostituzionale) al momento della sua formulazione. Ciò significa che, di regola, si escludono effetti retroattivi delle decisioni di incostituzionalità nei confronti degli atti che sono applicazione delle norme processuali annullate (Cass., sez. un., 7 settembre  1984, ma anche contra Corte cost., sentt. nn. 127/1966 e 49/1970). (…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., pp. 523 ss.

[14]V. M.  SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., pp. 35 ss.

[15]Al riguardo, (…) Per scongiurare siffatta eventualità, la Corte utilizza diverse tecniche. Talvolta, piuttosto che dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge, essa si limita ad un generico monito al legislatore, invitandolo ad intervenire. Talaltra, dichiara la non fondatezza della questione, solo perché la norma oggetto del suo giudizio ha carattere eccezionale (a causa, ad esempio, di un terremoto, come nella sentenza n. 100/1987, o di una grave crisi economica, come nella sentenza n. 349/1985) e/o provvisorio  (come nella sentenza n. 112/1993), chiarendo, contestualmente, che l’eventuale stabilizzazione della disciplina oggetto del giudizio sarebbe da ritenersi incostituzionale. In altre occasioni di latri Stati) è quella dell’incostituzionalità accertata ma non dichiarata. Con una decisione volutamente contraddittoria, cioè, la Corte argomenta nella motivazione l’incostituzionalità della norma, ma rigetta la questione nel dispositivo (ord. n. 18/2003). Vi sono, infine, le ipotesi in cui viene espressamente fissata una data, un momento o un fatto a decorrere dal quale la sentenza inizierà a produrre i propri effetti caduca tori (tra le altre, v. sentt. nn. 266/1988; 50/1989; 1/1991). Si tratta, come si può immaginare, di ipotesi limite, giustificate dalla Corte costituzionale sulla base di un principio  di minor danno, in considerazione cioè delle conseguenze intollerabili e contraddittorie rispetto alla finalità stessa del controllo di costituzionalità, che discenderebbero da una classica pronunzia di accoglimento. La retroattività è limitata, infine, nelle ipotesi di incostituzionalità sopravvenuta, in conseguenza dell’entrata in vigore della norma-parametro successivamente alla norma oggetto. In tal caso, infatti, il vizio si produce in un momento diverso rispetto a quello in cui l’atto legislativo (viziato) ha cominciato a dispiegare la propria efficacia, sicché gli effetti caduca tori non riguardano l’intero arco temporale di vigenza della norma. Ciò può verificarsi, come detto, quando muta il parametro costituzionale (purché ovviamente non si tratti di norme sulle competenze o procedurali, alle quali si ritiene applicabile il menzionato principio tempus regit actum). Analogamente si ha incostituzionalità sopravvenuta nel caso in cui venga modificata o caducata dalla stessa Corte una norma costituente un tertium comparationis o una norma altrimenti interposta (ad esempio, con l’entrata in vigore di una legge-cornice e conseguente incostituzionalità sopravenuta delle leggi regionali contrastanti). Più in generale, tuttavia, casi di incostituzionalità sopravenuta possono riscontrarsi tutte le volte in cui un mutamento del sistema normativo produca la nascita di una nuova norma (oggetto o parametro) senza una formale modifica del dato testuale, ossia senza che venga alterata la disposizione. Il che può dipendere da sopravvenienze normative, come l’entrata in vigore di nuovi atti (anche sentenze della Corte costituzionale), i quali producono indirettamente effetti sistematici sull’interpretazione di disposizioni preesistenti, o da sopravvenienze effettuali, come il passare del tempo (che provochi lo stabilizzarsi di normative provvisorie), le novità tecnologiche o scientifiche (v. ad esempio, sentt. nn. 225/1974 e 2002/1976, in materia di frequenze radiotelevisive), un mutamento della situazione economico finanziaria (sent. n. 89/1992) o, addirittura, l’evolversi della coscienza sociale (emblematica è, al riguardo,la vicenda della norma sull’adulterio della donna, che è stata giudicata dalla Corte in modo opposto nelle sentt. nn. 64/1961 e 126/1968. (…);  F. S. MARINI, G. GUZZETTA , (qui riportato quasi testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., pp. 523 ss.

[16]Cfr. S. M. CICCONETTI,  Lezioni di giustizia costituzionale, cit., p. 77.

[17]Su questo aspetto, (…)E ciò per almeno due motivi: l’uno di carattere testuale e l’altro sistematico. Più specificamente, il primo si trarrebbe dall’articolo 136 Cost., il quale utilizzando il verbo “dichiarare” sembrerebbe alludere, nella ricostruzione di ONIDA, ad una sentenza, appunto, dichiarativa (con la quale si accerta tipicamente la nullità di un atto) e non costitutiva (con la quale se ne delibera l’annullamento). Inoltre, l’annullamento sarebbe di solito connesso ad un vizio della volontà del soggetto che ha compiuto l’atto, mentre la nullità consegue alla difformità dell’atto rispetto ad un parametro normativo. Entrambi gli argomenti non sembrano insuperabili. Esistono, infatti, “dichiarazioni” di volontà che sono, di regola, a carattere costitutivo ed esistono casi in cui l’annullamento è dovuto alla violazione di una norma come accade in talune ipotesi di accertamento processuale dell’illegittimità degli atti amministrativi. Inoltre, l’articolo 136 Cost., facendo riferimento ad una cessazione di efficacia, presuppone che l’atto prima della sentenza abbia prodotto effetti giuridici, mentre gli atti nulli di regola non producono effetti sin dall’origine (quod nullum est effetum producit). Senza considerare che la nullità, solitamente, viene dichiarata d’ufficio da qualsiasi giudice, mentre l’articolo 136 Cost., riserva tale potere solo alla Corte costituzionale e su iniziativa di soggetti determinati. Pur con l’avvertenza che i termini giuridici assumono talvolta accezioni parzialmente diverse nelle differenti branche del diritto, sembra, dunque, preferibile qualificare l’efficacia delle sentenze di accoglimento come annullamento. Ciò significa che le leggi incostituzionali hanno un’efficacia precaria e risolutivamente condizionata alla decisione delle Corte. La descritta circostanza pone una serie di problemi relativamente all’osservanza (o inosservanza della legge incostituzionale, da parte dei privati o della pubblica amministrazione, vengono travolti dalla pronuncia della Corte costituzionale, la quale fa venir ameno (nei limiti dei propri effetti retroattivi) l’eventuale illiceità dei comportamenti posti in violazione delle norme annullate. Pur nell’incertezza soggettiva sull’incostituzionalità della legge, gli operatori possono decidere di assumere il rischio dell’inosservanza e di eventuale futuro giudizio. Tuttavia, è probabile che essi preferiscano osservare la legge di dubbia costituzionalità, in quanto l’eventuale pronuncia di annullamento, pur travolgendo gli atti giuridici posti in essere sulla base di quel fondamento normativo, non si traduce, per mancanza della colpa e del dolo di chi l’abbia rispettata, in un illecito penale, civile,o amministrativo. In altri termini, chi osserva la legge di dubbia costituzionalità rischia di compiere un atto illegittimo, ma non può essere chiamato a rispondere a titolo di illecito, per mancanza di colpevolezza. Se di illecito si vuol parlare nel caso di illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, questo è commesso dall’autore dell’’atto. Cosicché, qualora si superasse il dogma dell’irresponsabilità per l’adozione degli atti normativi, si potrebbe concepire un’azione di risarcimento dei danni contro l’organo (le Camere, il Governo, il Consiglio regionale, ecc) o contro l’ente (lo Stato o le regioni). Diversamente, chi non osserva la legge di dubbia costituzionalità commette un illecito (penale, amministrativo o civile) e può solo sperare in un successivo annullamento da parte della Corte costituzionale. Meno problematica è la posizione dei giudici, i quali non possono applicare, né disapplicare la norma legislativa di dubbia costituzionalità, bensì devono sollevare la questione alla Corte  costituzionale e sospendere il proprio giudizio. (…)”;  F. S. MARINI, G. GUZZETTA, (qui riportato quasi  testualmente). V. Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., pp. 525 ss.

[18]V. M. SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., pp. 35 ss.

[19]E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit., p. 141.

[20]Ibidem, p. 137 ss.

[21]Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., pp. 236 ss.

[22]Cfr. E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit., p. 135.

[23]Cfr. A. D’ATENA, Interpretazioni adeguatrici, diretto vivente e sentenze interpretative della Corte costituzionale, Atti del seminario Corte costituzionale, giudici comuni, interpretazioni adeguatrici, tenutosi al Palazzo della Consulta il 6 novembre 2009, pp. 2 ss; F. BILE, L’interpretazione nella giustizia costituzionale italiana, intervento nei colloqui internazionali sulla giustizia costituzionale tenutosi in Algeri il 30 ottobre 2008, pp. 2 ss. in www.cortecostituzionale.it.

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